N. 145 -
giugno 2021
A proposito di
LA RELAZIONE TERAPEUTICA CON LA PERSONA TOSSICODIPENDENTE
L'amore tra l’io e il tu è la relazione fondamentale, è la realtà della vita, senza la quale Né l'io nè il tu hanno, da soli, senso.
E', questa, una verità che, sebbene innegabile nella sua radicalità, disorienta e spesso spaventa. Essa obbliga infatti l'uomo a guardare l'altro, a riconoscerlo, ad entrare in contatto con lui e dunque a rinunciare definitivamente alla illusione della onnipotenza.
Lo costringe a riconoscere la propria indigenza, a guardare il proprio limite e a soffrire per causa sua, prima che quello stesso limite si trasformi in risorsa spirituale, in occasione di incontro e di attivazione d'amore.
Per la riscoperta di questa relazione fondamentale, un ambito privilegiato, tra i vari possibili, e sicuramente quello della " cura " dei tossicodipendenti.
Espressione di un profondo disagio, l'uso della sostanza stupefacente tende infatti ad estremizzare il disturbo della relazione. Esso è, ridotto alla sua essenzialità, un tentativo disperato di negare narcisisticamente l'altro, ed evitare così l'ansia minacciosa, forse maturata nella prima infanzia, di separarsi dall' oggetto d'amore.
Un'ansia che può indurre l'individuo a negarne difensivamente, in termini intrapsichici e interpersonali, il presupposto: il rapporto, naturale, di attaccamento, che si instaura in una relazione di sana dipendenza.
Ma evitare questo attaccamento equivale a coltivare l'illusione di un rapporto con la realtà privo di frustrazioni e impedimenti al piacere.
Una illusione che può nutrirsi del surrogato droga, una sostanza capace di simulare il piacere di un rapporto con l'oggetto d'amore, deprivato dell'intollerabile potere di separarsi, di minacciare l'insostenibile abbandono. E' una sostanza, la droga, capace in definitiva di annullare, sostituendola, la relazione con l'altro, e di evitare l'impegno che l'amore comporta, barattandolo con l'inganno della morte.
Ristabilire una relazione di sano attaccamento è risultato pertanto un obiettivo necessario per un intervento efficace nell'ambito della tossicodipendenza. Ciò in quanto aiutare la persona a rielaborare le proprie ansie abbandoniche, a conquistare una maggiore fiducia in se stessa e nelle proprie capacità di affrontare responsabilmente il mondo, in una relazione di interdipendenza con gli altri non pu6 che passare attraverso la rielaborazione di un sano, bonificante rapporto di attaccamento.
Tutto ciò ha imposto all'educatore la necessità di accettare una sfida. E la sfida è quella di misurarsi con l'altro, non già sul territorio di un " potente " quanto inefficace sapere scientifico o di un bonario, rassicurante atteggiamento assistenzialistico, bensì su quello del rapporto responsabile, disincantato, aperto all'altro, fiducioso.
Questa consapevolezza ha richiesto all'educatore una crescita professionale e personale continua, una costante attenzione alla propria processualità interiore. Gli ha chiesto cioè una coraggiosa azione di formazione e conoscenza di sè, per incontrare realmente l'altro, e non solo i fantasmi proiettati delle proprie angosce irrisolte. Solo così egli è riuscito ad esercitare quella " cura ", ad attivare dentro di sè quelle capacita di perseverare nelle incertezze, attraverso i dubbi, i misteri che l'agire dell'altro, più o meno consapevolmente, innesca. Ha dovuto esercitare, sviluppare una capacità di accogliere e di " redimere " che consiste nel saper tollerare i sabotaggi relazionali e nell'accettare di mantenere il
giudizio sospeso senza ricercare una spiegazione a tutti i costi. Razionalizzazioni, queste, altrimenti utili solo a sedare le proprie ansie ma non certo a comprendere le situazioni e le problematiche dell'altro.
Tale rapporto, richiama la capacità della madre di essere in contatto con i sentimenti del figlio e di accoglierli dentro di sè tutti, compresi quelli cattivi e proiettati, per restituirglieli integrati e " nominati ", in modo che non facciano pia paura. Capacità, anche, di saper porre dei limiti, di definire un confine protettivo, di esigere il rispetto di una norma strutturante.
" La madre che contiene " e il paradigma dell'educatore, e quella capacità " che permette all'utente di sperimentare anche i sentimenti più dolorosi, ma lo aiuta a esprimerli e a definirli rendendoli cosi meno dolorosi e terrificanti e quindi pensabili", che e la condizione per potersene assumere la responsabilità.
Ci sono peraltro tanti aspetti che fondano una capacità di questo genere e che risultano esportabili in qualunque altro contesto relazionale educativo.
Prima fra tutti la capacità di ascoltare.
Saper ascoltare è una qualità indispensabile nel lavoro dell'educatore, quasi un prerequisito.
Vuol dire capire cIò che l'altro intende comunicare cogliendo la componente emotiva del suo messaggio.
Vuol dire prendere in considerazione l'interlocutore, senza pregiudizi e anticipazioni concettuali di sorta: L'ascolto significa relazionarsi con un atteggiamento di curiosità, sapersi adattare caso per caso, andare incontro al bisogno dell'altro e cercare di soddisfarlo insieme a lui alla Luce di un adeguato esame di realtà.
Ascoltare quindi, lavorare con l'altro, con un atteggiamento di interazione attiva non di ricezione passiva.
E' una strada, pertanto, quella della cura dei tossicodipendenti, piena di stimoli e di insegnamenti. Un percorso a volte impervio, comunque impegnativo, che ha per6 dischiuso l'ambito educativo a nuovi orizzonti, a nuove frontiere.
Esso ha certamente arricchito it bagaglio di consapevolezze e di strumenti propri dell'educatore, ed e una strada privilegiata che lo predispone ad incontrare, a prendersi cura di altre situazioni di disagio, ora più che mai fiducioso che grazie all'altro, al suo qualsivoglia malessere, potrà realmente ristabilire la relazione fondamentale con l'Altro, meglio ancora tra l'io e it Tu.
