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N. 171 - marzo 2024
Approfondimenti

LA RIPARTIZIONE DELLA PALESTINA

Riportiamo, di seguito una sintesi circa la storia e le  ragioni del conflitto israelo-palestinese  

Settantacinque anni fa, nel 1947, le Nazioni Unite approvarono la Risoluzione 181, che proponeva la divisione della Palestina in due Stati: uno ebraico e uno arabo-palestinese. Secondo il piano, Gerusalemme e i suoi dintorni sarebbero stati controllati dalle Nazioni Unite come un corpus separatum per 10 anni, soggetto a futuri negoziati.

La popolazione della Palestina all’epoca era di circa 1.845.000 residenti, con il 67% di arabi e il 33% di ebrei. La maggior parte degli ebrei era emigrata in Palestina dall’Europa nei trent’anni precedenti il 1947. I confini proposti assegnavano il 61% del territorio alla Palestina ebraica e il restante 35% agli arabi.

Tuttavia, il piano non fu accettato da tutti e portò alla guerra arabo-israeliana del 1948. Oggi, la ripartizione rimane un argomento controverso e complesso nel conflitto tra Israele e Palestina .

Il piano di ripartizione riguardava la divisione del territorio in Palestina tra gli ebrei e gli arabi. Ecco i punti chiave:

  • Agenzia ebraica: L’organo di governo degli ebrei in Palestina votò a favore della decisione di creare uno Stato per gli ebrei.
  • Sionismo politico: L’ideologia del moderno nazionalismo ebraico sostenne la creazione di uno Stato ebraico in Palestina, considerandola un atto di giustizia per gli ebrei che avevano sofferto in Europa.
  • Supremo comitato arabo: La leadership arabo-palestinese respinse la ripartizione e chiese che il territorio fosse sotto il dominio arabo.
  • Principio dell’autodeterminazione: Il nazionalismo arabo lottò per liberare la Palestina dal dominio coloniale britannico e dalla migrazione sionista, sostenendo il diritto all’autodeterminazione delle popolazioni indigene.

In breve, gli ebrei vedevano la creazione di uno Stato in Palestina come giustizia per le loro sofferenze, mentre gli arabi consideravano gli ebrei come colonialisti europei che rivendicavano la loro patria

Nel 1917, durante la Prima guerra mondiale, gli inglesi occuparono la Palestina, subentrando al dominio turco ottomano. In quel periodo, gli ebrei costituivano solo circa il 10% della popolazione, con una presenza di circa 60.000 persone, molte delle quali erano giunte di recente dalla Russia. Sei settimane prima che le forze inglesi entrassero a Gerusalemme, il ministro degli Esteri britannico, Lord Arthur Balfour, inviò una lettera a un dignitario ebreo britannico, annunciando il favore del suo governo per l’istituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico. Questa lettera, nota come “Dichiarazione Balfour”, divenne una base importante per il dominio britannico nella regione, successivamente confermato dal mandato della Società delle Nazioni per la Palestina. L’articolo 4 di tale mandato prevedeva il coinvolgimento di un’appropriata agenzia ebraica nella costituzione del focolare nazionale ebraico e nell’evoluzione del Paese. È interessante notare che la Santa Sede aveva riserve su questo aspetto del mandato britannico. Il Segretario di Stato, cardinale Pietro Gasparri, scrisse al Segretario generale della Società delle Nazioni, esprimendo perplessità sul cambiamento implicito nello status degli ebrei residenti. Pur sottolineando che la Santa Sede non si opponeva al fatto che gli ebrei avessero uguali diritti civili in Palestina, rimarcava di non poter accettare che a essi venisse accordata una posizione privilegiata1.

 

Il sionismo, formalizzato politicamente come organizzazione mondiale nel 1897 a Basilea, vedeva nel “ritorno” a Sion l’unica soluzione possibile alla difficile situazione degli ebrei in Europa, sempre più vittime designate dei movimenti nazionalisti etnocentrici europei. Balfour e il suo primo ministro David Lloyd George erano in grande sintonia con questa idea. I sionisti in Gran Bretagna, in particolare il fisico ebreo russo Chaim Weizmann (poi primo presidente dello Stato di Israele), avevano corteggiato i politici britannici affinché sostenessero il sionismo, indicando una presenza ebraica in Palestina come il migliore interesse della Gran Bretagna. Da parte loro, Balfour e Lloyd George non solo erano motivati dall’interesse nazionale britannico, ma provavano anche solidarietà con la difficile condizione degli ebrei nell’Impero russo, i quali vivevano sotto un regime discriminatorio, esposti a sporadiche violenze e all’espulsione. Inoltre, come cristiani che si ispiravano alla Bibbia, sposavano l’idea che la Palestina fosse la patria promessa da Dio agli ebrei: convinzione, questa, che caratterizza il sionismo cristiano, fondato sul fondamentalismo biblico, ampiamente diffuso nel mondo anglosassone. Questo misto di interesse imperiale, nobile sollecitudine umanitaria e fervore religioso riferito alla Bibbia fece da potente sfondo nel sostegno accordato al sionismo

I cambiamenti nel trattamento e nella percezione degli ebrei nel corso dei secoli. Ecco i punti chiave:

  1. Antigiudaismo e Antisemitismo:
    • Nel XIX secolo, l’antigiudaismo si trasformò in antisemitismo, spinto dalle nuove teorie del nazionalismo etnocentrico.
    • L’antisemitismo non era più basato su motivi teologici, ma sulla retorica nazionalista che considerava gli ebrei come stranieri, traditori e incapaci di integrarsi.
  2. Genocidio e Discriminazione:
    • Durante la prima metà del XX secolo, milioni di ebrei furono assassinati e molti altri furono sradicati a causa dell’antisemitismo.
    • Il nazionalismo etnocentrico e il populismo razzista portarono alla fine di molte culture ebraiche che avevano arricchito l’Europa per millenni.
  3. Scelte difficili:
    • Gli ebrei, che avevano sperato di integrarsi come cittadini paritari nelle loro patrie europee, spesso si trovarono costretti a scegliere tra la morte e l’emigrazione.

In sintesi, l’antisemitismo ha avuto un impatto devastante sulla vita e la cultura degli ebrei europei, culminando nell’Olocausto e nella perdita di molte comunità secolari. Tuttavia, la fine della guerra fredda ha offerto nuove prospettive per la salvaguardia del patrimonio ebraico in Europa.

Il periodo di governo britannico della Palestina e la complessità della situazione territoriale. Ecco i punti chiave:

  1. Terra Senza Popolo:
    • Nel XIX secolo, un politico cristiano sionista britannico, Lord Shaftesbury, aveva descritto la Palestina come “una terra senza popolo per un popolo senza terra”.
    • Tuttavia, gli inglesi scoprirono che la Palestina era abitata da una vivace popolazione arabo-palestinese di musulmani, cristiani e alcuni ebrei arabi palestinesi.
  2. Diritti Civili e Religiosi:
    • Nel 1917, Lord Edwin Montagu, un oppositore del sionismo, insistette affinché la lettera di Balfour includesse una dichiarazione che rispettasse i diritti civili e religiosi delle comunità non ebree presenti in Palestina.
    • La tensione tra l’appello a stabilire un “focolare nazionale” ebraico e il rispetto dei diritti della popolazione “non ebrea” portò a una feroce guerra civile tra ebrei sionisti, arabi palestinesi e le forze britanniche.
  3. Ripartizione Respinta:
    • Non sorprende che i palestinesi abbiano respinto il piano di ripartizione, data la complessità delle questioni territoriali e dei diritti civili e religiosi.

In quel periodo, i movimenti di liberazione in Asia e Africa stavano lottando per l’autodeterminazione e la liberazione dalle potenze coloniali. Gli arabi residenti in Palestina vedevano sia gli inglesi sia gli ebrei immigrati come colonizzatori europei. Tuttavia, la ripartizione sembrava un compromesso ragionevole: gli ebrei tornavano nella loro antica patria, mentre gli arabi palestinesi si consideravano gli indigeni. La Santa Sede appoggiò il piano di ripartizione, soprattutto perché Gerusalemme sarebbe stata un’entità separata, non sotto la giurisdizione di nessuno dei due Stati. Ma quali furono le conseguenze di questa ripartizione?

Nonostante il piano di ripartizione sia stato alla base della visione internazionale riguardo a Israele-Palestina per gli ultimi 75 anni, non è mai stato attuato. Nel maggio 1948, gli inglesi si ritirarono dalla Palestina, lasciando un Paese dilaniato dalla guerra civile tra ebrei sionisti e arabi palestinesi. La dichiarazione dello Stato di Israele portò a una serie di guerre regionali con i Paesi arabi circostanti. Israele, sostenuto da Urss, Stati Uniti e altri alleati europei, respinse gli eserciti arabi. L’accordo di armistizio del gennaio 1949 riconobbe la sovranità di Israele non solo sulle terre assegnate dal piano di ripartizione, ma anche su territori che aveva occupato durante la guerra1. Questo segnò l’inizio di un conflitto duraturo e complesso tra Israele e i Paesi arabi, con conseguenze che si riflettono ancora oggi nella regione del Medio Oriente.

Nel 1967, la regione vide lo scoppio dell’ennesima guerra, che contrappose Israele, sostenuto dagli Stati Uniti, ai Paesi arabi circostanti, appoggiati dall’URSS. La clamorosa vittoria dello Stato di Israele gli assicurò il controllo del restante 22% della Palestina mandataria (Cisgiordania e Striscia di Gaza), che fu sottoposta all’occupazione militare. La Risoluzione 242 delle Nazioni Unite chiedeva la fine di tale occupazione e una giusta soluzione della questione dei profughi palestinesi. Poco prima della guerra, attivisti palestinesi avevano fondato l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), che si assumeva la rappresentanza del popolo palestinese. La Risoluzione 3236 delle Nazioni Unite, nel novembre 1974, riconosceva il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione in Palestina, ridestando l’intenzione del piano di ripartizione, e concedeva anche all’Olp la condizione di osservatore non statale all’Onu.

Il 15 novembre 1988, nel contesto di una rivolta generale contro l’occupazione israeliana, nota come intifada, l’Olp dichiarò l’istituzione dello Stato di Palestina. Sebbene i territori che componevano tale Stato fossero sotto il controllo di Israele, molti Paesi lo riconobbero, citando la Risoluzione 181. Fortemente incoraggiati dalla comunità internazionale, i negoziati tra Israele e l’Olp iniziarono nei primi anni Novanta, portando alla firma degli Accordi di Oslo nel 1993 e alla successiva istituzione dell’Autorità nazionale palestinese, con sede a Ramallah, in Cisgiordania. Tuttavia gli Accordi non sono mai stati pienamente attuati, e nel settembre 2000 ha avuto inizio un’altra tornata di violenze, una seconda intifada. Infine, il 29 novembre 2012 la Palestina è stata riconosciuta dalle Nazioni Unite come Stato osservatore non membroSia Israele sia gli Stati Uniti hanno protestato contro tale riconoscimento, pur continuando entrambi a sostenere formalmente il principio di due Stati per due popoli.

 

La Shoah e la Nakba sono eventi storici profondamente legati, sebbene abbiano coinvolto popolazioni diverse e si siano verificati in contesti diversi.

  1. Shoah:
    • La Shoah, nota anche come Olocausto, fu l’orribile sterminio degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale.
    • L’antisemitismo raggiunse livelli satanici, con l’industria del genocidio che operò in modo spaventoso.
    • La Shoah ebbe conseguenze devastanti per gli ebrei, ma influenzò anche la storia dei palestinesi.
  2. Nakba:
    • La Nakba, che significa “catastrofe” in arabo, si riferisce all’esodo forzato di circa 700.000 arabi palestinesi dai territori occupati da Israele durante la guerra arabo-israeliana del 1948.
    • La fondazione dello Stato di Israele portò alla tragedia dell’esodo per i palestinesi.
    • La comunità internazionale cerca di bilanciare questi due momenti fondamentali, ma la questione rimane complessa.
  3. Soluzione dei due Stati:
    • La decisione di ripartire la Palestina in “due Stati per due popoli” si basa sulla necessità di una patria sicura per gli ebrei dopo la Shoah.
    • Tuttavia, la sicurezza ebraica non dovrebbe significare la perdita dei diritti dei palestinesi.
    • La soluzione dei due Stati è ancora un obiettivo attuale?

In sintesi, la Shoah e la Nakba hanno segnato profondamente la storia e continuano a influenzare il conflitto israelo-palestinese.

La soluzione dei due Stati per il conflitto israelo-palestinese è stata a lungo considerata un passo verso la pace. Tuttavia, a 75 anni dalla decisione di ripartire la Palestina, sorgono dubbi sulla sua fattibilità. Nel 2012, l’accettazione della Palestina come Stato osservatore all’ONU sembrava un progresso. Papa Benedetto XVI e Papa Francesco hanno entrambi sostenuto questa prospettiva. Tuttavia, sondaggi recenti mostrano che la maggior parte degli israeliani ed i palestinesi non è più favorevole alla soluzione dei due Stati. Nonostante ciò, la comunità internazionale continua a perseguire questo obiettivo123. La situazione sul campo rimane complessa e controversa.

Il dibattito riguardante il conflitto tra Israele e Palestina sta gradualmente spostando l’attenzione verso un nuovo vocabolario politico-diplomatico. In particolare, la parola “uguaglianza” sta guadagnando maggiore rilevanza. A partire dal 2004, alcuni hanno sostenuto che il termine appropriato per descrivere la situazione attuale sia “apartheid”. Negli ultimi anni, l’accusa che Israele utilizzi un sistema di apartheid per dominare i palestinesi è stata estesa anche allo Stato di Israele e al suo controllo sui cittadini arabi palestinesi. Questa discussione suscita forti emozioni e genera un vivace dibattito da entrambe le parti.

Nell’Assemblea generale del Consiglio ecumenico delle Chiese, tenutasi a Karlsruhe, in Germania, nel settembre 2022, è stata emessa una dichiarazione in merito: “Di recente, numerose organizzazioni e organismi legali internazionali, sia israeliani che palestinesi, hanno pubblicato studi e rapporti che descrivono le politiche e le azioni di Israele come ‘apartheid’ ai sensi del diritto internazionale. All’interno di questa Assemblea, alcune Chiese e delegati sostengono fortemente l’utilizzo di questo termine per descrivere adeguatamente la realtà del popolo in Palestina/Israele e la sua posizione secondo il diritto internazionale, mentre altri lo ritengono inappropriato, inutile e doloroso. Non siamo unanimi su questo argomento e dobbiamo continuare a confrontarci su questa questione mentre lavoriamo insieme per la giustizia e la pace” .

 

Il dibattito riguardante il conflitto tra Israele e Palestina sta gradualmente spostando l’attenzione verso un nuovo vocabolario politico-diplomatico. In particolare, la parola “uguaglianza” sta guadagnando maggiore rilevanza. A partire dal 2004, alcuni hanno sostenuto che il termine appropriato per descrivere la situazione attuale sia “apartheid”. Negli ultimi anni, l’accusa che Israele utilizzi un sistema di apartheid per dominare i palestinesi è stata estesa anche allo Stato di Israele e al suo controllo sui cittadini arabi palestinesi. Questa discussione suscita forti emozioni e genera un vivace dibattito da entrambe le parti.

Nell’Assemblea generale del Consiglio ecumenico delle Chiese, tenutasi a Karlsruhe, in Germania, nel settembre 2022, è stata emessa una dichiarazione in merito: “Di recente, numerose organizzazioni e organismi legali internazionali, sia israeliani che palestinesi, hanno pubblicato studi e rapporti che descrivono le politiche e le azioni di Israele come ‘apartheid’ ai sensi del diritto internazionale. All’interno di questa Assemblea, alcune Chiese e delegati sostengono fortemente l’utilizzo di questo termine per descrivere adeguatamente la realtà del popolo in Palestina/Israele e la sua posizione secondo il diritto internazionale, mentre altri lo ritengono inappropriato, inutile e doloroso. Non siamo unanimi su questo argomento e dobbiamo continuare a confrontarci su questa questione mentre lavoriamo insieme per la giustizia e la pace” .

Il politologo dell’Università di Princeton, Michael Walzer, condivide l’opinione di Judt riguardo alla liberazione del mondo dagli Stati-nazione. Tuttavia, solleva alcune domande critiche. Perché iniziare da Israele e non dalla Francia? La tesi di Judt non mira a un Stato binazionale, ma sostituirebbe uno Stato-nazione con un altro. Tra il Giordano e il Mediterraneo, gli arabi supererebbero numericamente gli ebrei, portando alla costituzione di uno Stato arabo-palestinese. La presenza di una forza internazionale di interposizione sarebbe inutile e dannosa. La conseguenza? Gli israeliani, soprattutto la classe media e gli intellettuali laici, abbandonerebbero la patria in cerca di lavoro e sicurezza altrove.

Altri studiosi criticano Judt per essere poco realista e per confondere concetti diversi. Proporre un’alternativa “per Israele” è diverso dall’ipotesi di un’alternativa “all’esistenza stessa di Israele”. Inoltre, cosa impedisce a una nuova entità statuale a maggioranza araba di trasformarsi in uno Stato terrorista, come accaduto a Gaza? La prospettiva monostatuale è sconcertante e solleva interrogativi sulla rivendicazione del radicalismo palestinese e sulla crescente violenza tra le due comunità.

Alcuni studiosi criticano Judt per essere poco realista e per confondere concetti diversi. Mentre pensare a un’alternativa “per Israele” è diverso dall’ipotesi di un’alternativa “all’esistenza stessa di Israele”. La prospettiva monostatuale, secondo Leon Wieseltier, è sconcertante. Si chiede se il ritorno degli ebrei a essere un popolo senza patria e la rivendicazione del radicalismo palestinese siano preferibili alla creazione di due Stati per due nazioni.

Anche tra i sostenitori della tesi monostatuale, alcuni studiosi riconoscono le difficoltà sia per la parte israeliana, sia per quella palestinese. La questione è se un Stato binazionale democratico e laico, che riconosca gli stessi diritti a tutti i cittadini, sia oggi fattibile per la parte araba. Alcuni preferiscono un “Stato etnico-religioso” basato sull’idea che gli arabi e i musulmani siano la popolazione indigena del Paese, simile a quello che sta emergendo a Gaza. Nonostante le sfide, alcuni studiosi non escludono la possibilità di costruire gradualmente un’autentica democrazia.

 

La posizione dei nuovi storici israeliani

In ogni caso la tesi monostatuale, nelle sue diverse e a volte acute formulazioni, a giudizio della maggior parte degli osservatori politici e degli studiosi dei problemi mediorientali, avrebbe poche possibilità di successo, anche perché i presupposti su cui si fonda (instaurazione di uno Stato democratico, fondato sul riconoscimento dei diritti delle persone e sul principio di laicità) non sono accettati o riconosciuti dalle componenti più intransigenti o militanti di entrambe le parti. In ogni caso il problema israeliano-palestinese e la sua soluzione nelle attuali circostanze storiche meritano di essere analizzati anche dal punto di vista pratico, mettendo a fuoco le soluzioni possibili e quindi praticabili.

Secondo lo storico israeliano Benny Morris, uno dei maggiori conoscitori della materia, «è un problema di scienza politica relativo al miglior modo possibile di ordinare una società umana — o due società umane — in un dato spazio, tenendo ben presente la demografia, la geografia, la politica, le realtà economiche, gli aspetti culturali e così via». Per Morris e secondo buona parte degli storici «revisionisti» e degli intellettuali israeliani, la soluzione bistatuale sarebbe allo stato dei fatti l’unica praticabile. I problemi iniziano quando si tratta di dare contenuti specifici a tale opzione di principio. Secondo essi, ad esempio, la proposta di spartizione della Palestina storica con l’assegnazione del 79% del territorio agli ebrei e il 21% agli arabi palestinesi non potrebbe non lasciare negli arabi un profondo senso di delusione e di ingiustizia, creando un senso di ribellione e di risentimento anche nei moderati. In ogni caso, uno Stato palestinese che comprendesse la Cisgiordania (in qualche misura mutilata al fine di tutelare i coloni israeliani), la Striscia di Gaza e forse una parte di Gerusalemme, sarebbe semplicemente un abbozzo di Stato; esso infatti non sarebbe in grado di funzionare soprattutto sul piano economico-sociale: come farebbe uno Stato così piccolo e povero ad andare incontro alle necessità materiali di una popolazione così numerosa, considerando, inoltre, che molti profughi che ora vivono nelle miserabili periferie di molte città arabe degli Stati che li accolgono verrebbero spinti (anche contro la loro volontà) a ritornare nel loro Paese? Tale Stato, spinto da necessità di ordine economico, demografico e politico, sarebbe tentato di espandersi, creando situazioni di conflitto e di insicurezza per tutta l’area, verso i Paesi confinanti, in particolare verso lo Stato di Israele e la Giordania, dove circa il 70% della popolazione è di origine palestinese.

La tesi monostatuale, proposta da alcuni studiosi, ha poche possibilità di successo secondo la maggior parte degli osservatori politici e degli esperti del Medio Oriente. I presupposti su cui si basa (uno Stato democratico con diritti delle persone e laicità) non sono accettati dalle componenti più intransigenti di entrambe le parti. Tuttavia, il problema israeliano-palestinese merita un’analisi pratica delle soluzioni possibili.

Secondo lo storico israeliano Benny Morris, la soluzione bistatuale è l’unica praticabile. Tuttavia, definire i dettagli di questa opzione è complesso. La proposta di spartizione della Palestina storica, assegnando il 79% del territorio agli ebrei e il 21% agli arabi palestinesi, potrebbe causare delusione e ingiustizia tra gli arabi. Un futuro Stato palestinese, che includa Cisgiordania, Striscia di Gaza e forse parte di Gerusalemme, sarebbe solo un abbozzo di Stato e avrebbe limitate capacità di funzionamento.

L’accordo bistatuale proposto ai palestinesi nel 2000 da Barak e Clinton sembra improbabile da riproporre e funzionare. Tuttavia, secondo lo storico israeliano Zeev Sternhell, l’idea di uno Stato binazionale rimane la base morale e politica per una soluzione equa e una possibilità di pace per entrambi i popoli. L’ipotesi di un unico Stato porterebbe a conflitti sanguinosi. Due Paesi fianco a fianco, con uguali diritti, sono la strada giusta.

Una possibile soluzione potrebbe essere una confederazione di Stati mediorientali, coinvolgendo Israele, Cisgiordania, Striscia di Gaza e Giordania. Questo avvicinerebbe gradualmente il popolo palestinese a quello giordano e potrebbe ridefinire l’area politicamente. Tuttavia, questo progetto presenta sfide.

Considerando tutto questo, è improbabile che un accordo bistatuale basato sul modello proposto ai palestinesi nel 2000 da Barak e Clinton abbia la minima possibilità di funzionare, anche se un accordo simile fosse riproposto per necessità. Tuttavia, l’idea di una soluzione bistatuale rimane l’unica base morale e politica solida che potrebbe offrire un po’ di giustizia e una possibilità di pace per entrambi i popoli. Secondo lo storico israeliano Zeev Sternhell, l’ipotesi di un unico Stato non solo porterebbe all’eliminazione dello Stato ebraico, ma aprirebbe la strada a conflitti sanguinosi per generazioni. La strada giusta e necessaria, quindi, sarebbe quella di due Paesi fianco a fianco, fondati su uguali diritti per entrambi i popoli. Ogni altra scelta condurrebbe o al colonialismo o all’eliminazione di Israele in uno Stato binazionale.

Tuttavia, l’attuazione di questo principio diventa sempre più ardua con il passare del tempo, considerate le contingenze del momento.

Una possibile via per una soluzione bistatuale, che potrebbe ipoteticamente raccogliere un vasto appoggio tra l’opinione pubblica araba, sarebbe la costituzione di una “confederazione di Stati mediorientali”, meglio se ristretta ai soli Paesi interessati. In questa confederazione entrerebbero Israele, la Cisgiordania, la Striscia di Gaza e la Giordania. Naturalmente, questa soluzione condurrebbe a un graduale ma inevitabile avvicinamento tra il popolo palestinese e quello giordano, ponendo le basi per una futura ridefinizione dell’area anche in termini politico-statuali. Secondo Morris, una confederazione di questo tipo risolverebbe molti problemi attuali: risolverebbe la probabile incapacità di funzionare dello Stato palestinese formato dalla Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza, nonché i problemi di una Giordania che attualmente non ha sbocchi sul Mediterraneo e la cui popolazione, come detto, è in gran parte palestinese.

D’altro canto, va notato che tale progetto non è privo di sfide e complessità.

In sintesi, il progetto di una soluzione bistatuale per il conflitto israeliano-palestinese non è nuovo e ha ricevuto proposte da leader sia sionisti che palestinesi sin dagli anni Trenta. Tuttavia, questa soluzione, sebbene sostenuta da alcuni intellettuali israeliani, viene fortemente respinta dai fondamentalisti islamici (come Hamas) che controllano la Striscia di Gaza e hanno un forte consenso tra la popolazione palestinese. Questi gruppi sono determinati a preservare l’integrità del territorio storico della Palestina e non sono disposti a condividere questo territorio con gli israeliani. Nonostante gli sforzi della diplomazia internazionale, il conflitto appare ancora più complesso e intricato rispetto al passato. Tuttavia, sia i palestinesi che gli israeliani, con il sostegno della comunità internazionale, continuano a cercare una via per le trattative di pace, consapevoli delle sfide che li attendono.