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N. 144 - maggio 2021
Cronache emotive

L'ORDINARIETA' DELLA FOLLIA

Può la follia essere ordinaria? A livello di buon senso, certamente no. Se è vero infatti che la follia rappresenta la rottura drammatica della ordinaria normalità della vita, del prevedibile e logico svolgersi delle relazioni che segnano la convivenza umana, la pazzia non può essere ordinaria. Ma a leggere i giornali, ad ascoltare i vari notiziari, a guardare la tv pare proprio che la follia è sempre più frequentemente agita nella nostra realtà sociale.

I vari delitti, più o meno aberranti, che si susseguono giorno per giorno, ma soprattutto la messe di dettagliate informazioni fornita da  vari "Porta a Porta" e  simili  (tra le sofisticatissime indagini dei RIS, i pareri dei soliti "esperti in studio", la indignazione della "gente intervistata per strada", le ardite interpretazioni psicoanalitiche di qualche esperto del campo, ecc.) ci hanno indotto a "familiarizzare" con l'orrore.

E a ridurre il dramma della follia a rappresentazione spettacolare quotidiana.

 Insomma, la follia dell'uomo viene proposta, sempre più frequentemente, attraverso le dimensioni proprie dei prodotti consumistici reclamizzati: la spettacolarità e la quotidianità.

Deprivata della sua dimensione personale, della storie di profondo disagio da cui nasce e in cui trova la sua radice, lontana ed insondabile, la follia viene oggettivata e proposta nella unica superficie del fatto terribile e raccapricciante, tanto lontano da noi e tanto terribile in sé. E viene proposta quindi in una   dimensione  tale da giustificarne una doverosa distanza emotiva.

Descritta tra un'inserzione promozionale e il lancio di un nuovo prodotto, tra uno spot pubblicitario e l'altro, anch'esso "spettacolare" e "quotidiano", viene inserita nell'ordinario, rassicurante svolgersi della nostra vita.

Ma non è solo la dimensione televisiva o giornalistica che ci induce a normalizzare le tragedie (della follia e non solo) dei nostri giorni.

La rinuncia ad "interessarcene" nel senso etimologico del termine "interessare", cioè "nell'essere tra", vale a dire nel tentare di capire dal di dentro le ragioni del disagio delle persone a noi più o meno vicine, trae origine ad un altro atteggiamento più strisciante, meno evidente. E cioè: la ricerca di soluzioni scientifiche ad ogni evento inconsueto e doloroso della nostra vita sociale e personale.

Il tecnico, l'esperto, lo scienziato, sono i moderni sciamani cui affidiamo sempre più spesso i turbamenti della nostra vita, i misteri che l'attraversano, forse per preservarla dal "rischio" della compassione, della compartecipazione, della corresponsabilità.

Cosa c'è di più rassicurante infatti del ritenere l'evento imprevisto, il grido violento, l'episodio scandaloso, il dolore insopprimibile, come il prodotto di una "materia" troppo scottante per essere trattata da qualcuno che non sia il competente tecnico della stessa "materia"?

E così, se non ci riesce il RIS, si ricorre allo scienziato, o magari allo psicoanalista, e, perché no, al teologo nella sua veste di scienziato della fede, beninteso A loro il compito di risolvere il caso, il problema, il dilemma, ridotto ad argomento di discussione, oggetto di curiosità, e di serrati e appassionati dibattiti tra addetti al lavoro in una sorta di surreale gioco di società, un "giallo" dove la realtà, il dolore, il senso degli eventi, le persone, che ne sono protagoniste e vittime al tempo stesso, non esistono realmente più.

Il risultato è che non solo la follia diventa sempre più ordinaria, ma, ahimè che l'ordinarietà diventa sempre più folle.