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N. 166 - ottobre 2023

IL MIRACOLO DI SAN MATTEO

L'autunno è ancora distratto quest'anno, e nel giorno del suo ingresso ufficiale, alla città in festa, regala una giornata ancora estiva. Il miracolo salernitano annuale, puntualmente, si avvia a compiersi, e la corrente umana, come sempre, è ancora timida all'inizio, ma ineluttabilmente calamitata verso il polo centrale, un'irresistibile meta del corpo e dello spirito: il rito della processione. Sulla scia del percorso comune, mi avvio protetta da un sano scetticismo, e sento di camminare tenendomi interiormente a distanza dal mio passo, quasi un'inviata di me stessa, delegata ad osservare l'evento senza rimanerne veramente coinvolta.

Man mano che avanzo, mi propongo di rimanere una mera accompagnatrice, ma ho già perso di vista coloro che accompagnavo ed è già troppo tardi per ricongiungermi a loro. Le transenne sbarrano i miei passi, e il non poter scegliere, me ne rendo conto, è quasi un alibi per me che partecipo all'evento in modo critico e sono un po' indecisa tra l'esserci e il non esserci. Ma già il movimento collettivo prende il sopravvento e il caso vuole che io mi fermi in un tal punto. Rimango. Sono ad un bivio, e già sento l'avanzare del serpente chiassoso dalle sue prime avvisaglie: i rappresentanti delle Associazioni Umanitarie con le loro aste e i loro vessilli. Troppa retorica di piazza, se non fosse per quel seguito di umanità pura che mi trasmette una commozione a cui non desidero sottrarmi. Sono in tanti, infatti, ad avere accettato di portare in pubblico la loro malattia, la loro deformazione, la loro disabilità, e questo fa loro onore più di una corona, più di una bandiera e rende più piccoli noi già confusi nella folla.

Noi, volti senza nome che abbiamo camminato speditamente fin qui, che abbiamo occhi per vedere, orecchie per sentire, e forse abbiamo dimenticato quanto a volte si abbia bisogno anche dei Santi. Il mio stato d'animo non ha bisogno di colonna sonora, ma la musica arriva puntuale, a sottolineare la mia commozione. E' una musica un po' grossolana, approssimativa come è comprensibile che sia quando a suonarla è una squadra in movimento, ma in compenso la vicinanza di ogni strumento che si alterna a pochi centimetri da me mi colpisce profondamente e mi tocca quasi fisicamente, giacché non distinguo quasi l'emozione mentale da quel soprassalto del corpo.

Anche i suoni, per quanto intangibili, sono fatti  di materia; viceversa, anche i nostri corpi sono pieni di spirito, e la sfilata dei sacerdoti ce lo ricorda a sua volta. Bando alle riflessioni, mi lascio coinvolgere da qualche battuta estemporanea, dall'ironia improvvisata che condivido con degli sconosciuti. Sono presi da una attonita attenzione, immobili al fondo della strada come i personaggi della "Bella Addormentata", poi qualcuno fotografa, qualcuno solleva più in alto il bambino tenuto sulle spalle, e sopra, più in alto di tutti, i palloncini dei venditori si ergono nel cielo sopra i nostri fiati, già leggermente opprimenti.

Sulle balconate dei residenti, trasformate per un'ora in palcoscenici d'onore, altri spettatori, nella loro comodità invidiabile, perdono però qualcosa, credo, di questa festa così sentita, che con i piedi sull'asfalto si vive più a fondo.

Ci siamo! All'orizzonte arriva traballando la statua del Santo. Non è grande, ma ha il privilegio di aprire "le danze", di introdurre la parte più nobile della sfilata.

Mentre mi rimprovero di non aver ripassato abbastanza la biografia di Gaio e Ante (martiri della prima cristianità) mi ritrovo a dare priorità all'immediato, perché rimango affascinata dall'arrivo dei "portatori". Sono tanti, come sempre, perché la forza di gravità ci rende ancora schiavi, ancora bisognosi di questo aiuto. Potessimo sollevare i nostri venerati con la forza del pensiero, non avremmo bisogno di avere in prestito le braccia doppie di tutti questi uomini e del loro sforzo. Essi esibiscono, sì, la loro forza e la loro resistenza ma anche la loro devozione, la loro fedeltà. Ed è questo che li salva dallo sfinimento.

A dispetto di tutti i loro affanni (quelli che inevitabilmente la vita riserva a ciascuno di loro e di noi) essi puntualmente arrivano all'appuntamento coi loro Santi, così pesanti da richiedere il loro sudore. Nei loro volti affaticati posso leggere il disagio ma anche l'orgoglio di fare ciò che fanno, mentre cercano, con le mani bloccate, di gratificarsi con un cenno degli occhi, con un sorriso o un saluto a chi hanno riconosciuto tra noi sul loro faticoso cammino. È una sorta di calvario gioioso, che si alimenta di un tifo quando timido, quando vivace. Dalla mia angolazione vedo prima la sagoma che scende frontalmente, poi ho il vantaggio di osservare ciò che succede quando la lettiga giunta al crocevia si concede ai presenti una breve ma intensa sosta di rito di fronte alle telecamere puntate.

Nel mezzo della croce formata dalle quattro strade ogni statua si ferma per ricevere un lancio di foglie e di fiori, una cascata di verde e di colore che cade sui visi degli uomini. A quel punto, all'ordine del capo, un inatteso movimento delle braccia di tutti i portatori sottolineato dalla musica e dagli applausi riesce a sollevare d'un colpo, nello stesso istante, il pesante fardello. E d'un tratto qualcosa di nuovo mi è chiaro: ciò che rende pieno di senso questo cammino è capire che solo insieme, e in tanti, unendo i nostri sforzi e le nostre voci, possiamo diventare tanto forti da sostenere i nostri dolori e gioire dei nostri passi, e solo fermandoci di tanto in tanto, a guardare in alto.

Così mi immergo nel bagno di esultanza della folla gioiosa. Salerno non è mai stata così piena, ebbra di se stessa, con i Santi che si succedono: San Fortunato, San Gregorio, e infine l'amatissimo San Matteo. In questo trionfo di colori, il folklore confonde quanto basta il sacro ed il profano e la presenza delle autorità civili gioca il suo ruolo. È la più classica delle cerimonie, ma ha qualcosa di più: una energia magica, un abbraccio reciproco tra la città e i simboli della sua fede, un'esplosione di vitalità non paragonabile a qualsiasi altra esperienza pubblica. Così, nell'incalzare delle emozioni, capisco che tutto è già oltre, che il passaggio si è compiuto e che tutto il seguito avanza inesorabilmente verso altri punti, verso il Duomo che attende il rientro dei suoi danzanti colossi. L'imbrunire ha già ceduto alla sera. Il corteo, nel punto in cui mi trovo, si è già rapidamente disciolto. I personaggi della fiaba riprendono vita, riprendono i loro abituali pensieri.

Ritorno sui miei passi, già a specchiarmi nella mia nostalgia. Sento la città più mia, e il suo cielo più vicino.