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N. 157 - febbraio 2023
Approfondimenti

IL MALE ORDINARIO

Ma nella nostra società c’è un altro aspetto della «banalità etica» che, accennato anche da Bauman, aveva già trovato un’ampia spiegazione da parte della filosofa ebrea Hannah Arendt. Ella infatti ha teorizzato la «banalità del male». Nata nel 1906 in Germania e morta nel 1975 a New York, Arendt «è stata una delle teoriche politiche tedesche (sul versante filosofico) più importanti del XX secolo. Vittima dell’antisemitismo nazista del 1933, ha trascorso parte della sua vita come apolide, dal 1937 al 1951, quando il governo tedesco le tolse la nazionalità (che più tardi le avrebbero offerto gli Stati Uniti)»

IL CASO EICHMANN Sebbene venga studiata come filosofa politica, Arendt non amava essere catalogata nel contesto della riflessione filosofica. Le piaceva autodefinirsi «teorica politica», ma opere come Vita activa6 e la sua costante critica di altri pensatori ne giustificano la collocazione tra i filosofi. La sua opera più conosciuta è La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme7.

PERCHÉ EICHMANN NON APPARIVA UN INDIVIDUO MALVAGIO? Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, Adolf Eichmann, il responsabile logistico dell’organizzazione e distribuzione dei campi di concentramento, fuggì in Argentina per sottrarsi al tribunale di guerra. Nel 1961, a dispetto del diritto internazionale, venne sequestrato e portato a Gerusalemme per essere giudicato. In quella circostanza il New Yorker chiese ad Arendt di fare una cronaca del processo. In seguito a tale richiesta lei scrisse La banalità del male, in cui non soltanto ha descritto minuziosamente lo svolgimento delle fasi processuali, ma si è posta una domanda essenziale: perché, nonostante avesse permesso e contribuito a quelli che indubbiamente erano stati degli orrori, Eichmann non appariva un individuo malvagio?

EICHMANN UNA PERSONA DEL TUTTO NORMALE La filosofa vedeva in Eichmann una persona del tutto normale: egli era consapevole di quanto aveva fatto, non lo negava mai, eppure non scorgeva alcunché di intrinsecamente cattivo nei gesti che aveva compiuto. «Eseguivo ordini di Stato», sosteneva il gerarca tedesco, il quale, per giunta, si autodefiniva «buon cittadino», che compiva quanto gli era stato affidato. A partire da qui Arendt definisce la «banalità del male». In primo luogo, la banalità, proprio per la sua mediocrità, non la spinge a soffermarsi sul fatto che il male sia «orribile», ma sul perché Eichmann lo consenta o vi contribuisca.

L’INCAPACITÀ DI GIUDIZIO E LA DISTINZIONE TRA CONOSCENZA E PENSIERO Per Arendt, il fatto stesso che l’imputato non basi i suoi atti su forti convinzioni ideologiche o morali risulta perfino più terribile degli atti stessi. Perché una persona normale, che non è malvagia e nemmeno ha pretese che non siano quelle di eseguire ordini, si lascia coinvolgere in quell’enorme atrocità? Per incapacità di giudizio. Arendt distingue tra conoscenza e pensiero: la prima è l’accumulo di saperi e tecniche, la concettualizzazione di ciò che si è appreso, mentre il secondo viene definito come una sorta di costante dialogo interno, nel quale, in intima solitudine, ciascuno giudica le proprie azioni. Eichmann era privo di «pensiero», o quantomeno non lo esercitava mentre orchestrava lo smistamento di migliaia di ebrei in vista della loro esecuzione. Ciò faceva di lui un «nuovo agente del male», il quale, senza minimamente assomigliare a quanti agivano animati da forti convinzioni ideologiche, si univa a una massa deideologizzata e priva di consapevolezza che contribuiva – attivamente o passivamente – all’«orrore

INCAPACITÀ DI GIUDIZIO 3 GRUPPI Quanto all’incapacità di giudizio, Arendt distingue tre gruppi: 1. i nichilisti, i quali, credendo non vi siano valori assoluti, si collocano nelle sfere del potere; 2. i dogmatici, che si aggrappano a una posizione predeterminata; 3. i cittadini normali, simili all’uomo-massa individuato da José Ortega y Gasset, ossia il gruppo maggioritario che assume in maniera acritica le abitudini della società. Tutti questi gruppi sono privi del pensiero come viene inteso da Arendt. Ella ha sostenuto che il nazismo si è alimentato ed è stato incoraggiato da questi tre gruppi, ed è stato questo a far sì che alla gran parte del Paese sia stato consentito di perpetrare quei crimini contro l’umanità. Tuttavia la filosofa ebrea spiega che questa assenza di dialogo non è un male in sé, e tantomeno comporta alcun atto che sia a priori cattivo. È in situazioni estreme – come il dominio del nazismo in Germania, e ancor prima il suo affermarsi – che la banalità del male risalta come complicità, e persino come simpatia per gli «orrori

L’ESISTENZIALISMO MODERNO Il pensiero di Arendt, discepola di Martin Heidegger e Karl Jaspers, può essere accostato all’esistenzialismo moderno. In una delle sue opere più rappresentative, Vita activa, la filosofa svolge uno studio sullo stato dell’umanità nei tempi che le sono dati. Definisce la «condizione umana» come ciò che la determina, negando la «natura umana» come primo riferimento. Evidenzia «tre attività fondamentali» sulle quali poggia tale condizione: lavoro, opera e azione. Tutte e tre sono inglobate nel concetto di «vita attiva», e ciascuna corrisponde a una condizione: biologica, mondana e della pluralità.

È NECESSARIO RECUPERARE LA CAPACITÀ DI RIFLETTERE SUL SENSO DELLA VITA Gli intellettuali che hanno trattato della banalità, come Bauman e Arendt, e un libro di Manuel Fraijó, Semblanzas de grandes pensadores, ci invitano a leggere e a promuovere il pensiero critico, per ripensare la nostra vita nel contesto della cultura liquida e della banalità. Una società che corre il pericolo dell’«elettroencefalogramma piatto», che pensa soltanto a divertirsi, a evadere, a consumare, all’«usa e getta», ha un bisogno assoluto di un antidoto, come suggerisce Fraijó.