N. 145 -
giugno 2021
Salerno da vivere
IDENTITA' PLLURALI
Un viaggio alla scoperta dell'Io che cambia Autore: Fucecchi Antonella, Nanni Antonio Riflessioni a margine, tratte da un incontro con l'Autrice. Il futuro in cui crediamo ha bisogno di superare le barriere culturali, di fare di ogni diversità una ricchezza e di ricominciare da una "alfabetizzazione affettiva, relazionale, emotiva", che passi attraverso una alfabetizzazione linguistica.
Ma … Come è possibile intervenire sull'educazione mantenendo lo sguardo al sociale? Questo è l'interrogativo dal quale ha preso avvio il ricchissimo contributo della professoressa ANTONELLA FUCECCHI, già direttrice di CEM Mondialità docente di Lettere classiche al liceo Tasso di Roma, dal titolo "Identità plurali s-confinate", che ci guida in una rilettura della società e della cultura italiana contemporanea.
Negli anni '90, riflette Fucecchi, citando tra l'altro il corposo Dossier della CARITAS sui migranti, l'Italia diventa terra di immigrazione, e nella trasformazione profonda innescata a partire da quegli anni, anche la Scuola si trova a dover affrontare trasformazioni continue, una sorta di dissodamento del terreno che la costituiva. Il sempre crescente numero di alunni di paesi e culture diverse, a partire da allora, costringe la sfera educativa per eccellenza a misurarsi con se stessa, a interrogarsi sulle proprie modalità e sui propri fondamenti etici, rimanendo sempre più una sorta di ultimo presidio di valori a livello istituzionale, a difendere l'idea di eguaglianza, di parità nei diritti e nei doveri, in quanto principi basilari della Costituzione.
In tal senso, la Scuola si fa via via più carico del compito di integrare e di includere i nuovi cittadini dello Stato, dell'Europa e del mondo, trovandosi però nella scomoda condizione di dover poi negare ciò che prima ha in qualche modo promesso. In questa sorta di “tradimento” da parte dell'Istituzione scolastica, che non apre le porte ad un vero inserimento sociale e lavorativo, l'integrazione, la cittadinanza, lo ius soli, rimangono dunque ancora oggi delle difficili conquiste da parte di chi ancora, alla fine del percorso scolastico, si ritrova in qualche modo prigioniero di quella rigidità culturale che A. Fucecchi definisce una "ossificazione di identità". Del resto, se l'immagine dell'albero rimane pur sempre una metafora appropriata dell'umanità che affonda le sue radici nella propria terra e da lì trae il suo nutrimento, ancor più giusta ed espressiva è la rappresentazione di una umanità che è sempre in cammino, e che necessita dunque di piedi, più che di radici, affinché possa crescere ma anche muoversi e sintetizzare le proprie origini con quanto assimila nella sua mobilità. Facciamo nostro, dunque, l'ossimoro delle radici mobili, per definire la nostra versatilità, il nostro continuo spostarci e cambiare, destrutturarci e ristrutturarci, romperci e ricostruirci, come vasi giapponesi che possono acquisire valore anche dalla loro imperfezione. O come nell'indovinello di Edipo, in cui la Sfinge definisce l'uomo -in base al numero delle sue gambe nelle tre diverse età della vita- come il più mutevole degli animali. Ascendere, discendere, dunque, ma anche inclinarsi, piegarsi e rialzarsi, scorrere come un fiume nel suo continuo divenire, nel suo essere sempre un'acqua diversa. Se il Partenone, il Campidoglio, Il Golgota, rimangono i tre pilastri della nostra storia occidentale nel loro ergersi immobili verso l'alto, il movimento orizzontale e tortuoso del fiume esprime meglio il continuo divenire delle nostre identità fluttuanti. Acqua che accoglie e riceve, non sterile nella sua purezza ma feconda nella sua capacità di ricevere e di rinnovarsi. In ogni caso, al di là di ogni simbologia, il futuro in cui crediamo ha bisogno di superare le barriere culturali, di fare di ogni diversità una ricchezza e di ricominciare da una "alfabetizzazione affettiva, relazionale, emotiva", che passi attraverso una alfabetizzazione linguistica. Il diritto alla parola dunque, come primo tassello nella costruzione di una nuova identità, come vero cardine dell'accoglienza. Dobbiamo essere pronti ad aprire porte, a conoscerci, a esprimerci. A questo proposito, A. Fucecchi ci invita alla lettura della storia di Igiaba Scego, somala romana, immigrata di seconda generazione che è approdata alla sua identità italiana senza dimenticare le sue origini, le sue radici. Il tutto suggestivamente riassunto nel libro-racconto "La mia casa è dove sono". E dopo questo viaggio in una storia così intensa ci chiediamo: è possibile, oggi tracciare di una persona un ritratto di identità perfettamente compatibile con un'unica, elementare dimensione culturale che non sia in relazione con molte altre realtà antropologiche, altrettanto significative e costitutive di un individuo? A ben pensarci, sottolinea la professoressa, tutte le identità -le nostre, le loro- sono identità complesse. Siamo tutti stranieri, e i nostri alberi genealogici sono contorti come olivi battuti dal vento. La stessa genitorialità non è sempre meramente genetica ma emotiva, affettiva. I luoghi registrati all'anagrafe non corrispondono che in parte ai luoghi dell'anima, il cui fascino impregna la nostra memoria. Dunque, nel sentimento di un comune essersi strutturati, per così dire, a strati, è bene avvicinarsi all'altro sentendo in lui non già la sua estraneità ma il suo essere, come noi, un intreccio straordinario di elementi. Un individuo che attende di diventare persona, pienamente riconosciuta; una persona come noi, bisognosa di attenzione e di cura. Cura per ciascuno, per chi si ostina a sentirsi al centro, e per chi con meno voce reclama il proprio valore, per chi rimane alle periferie del mondo o di una società che esclude, per chi è diverso nel corpo o nell'anima, o nella appartenenza sociale e religiosa, qualunque sia la sua condizione. In tutto questo – ci ricorda A. Fucecchi- di primaria importanza è ovviamente il ruolo che la Scuola può giocare, una volta riconosciuta la priorità della relazione umana individuale. Al di là del pur notevole apporto della tecnologia, è necessario allora ripartire da quella sfera di umanità, di affetti e di interazioni tra persone, nella quale certamente un insegnante non può ridursi a un "manipolatore di interruttori" o a un "correttore di schede" meccanizzate, ma deve assolutamente continuare ad esserci nel "qui ed ora" della lezione reale, svolta tra confini palpabili e oggetti tangibili: banchi, matite, penne, io, te, voi, ogni giorno insieme a mettere in gioco la nostra complessità. Il nostro è, e deve continuare ad essere, un lavoro di cura e di "resilienza psichica", in cui ciascuno possa essere valorizzato, perché no, anche a partire dal segno interno delle proprie ferite, dalle cicatrici esistenziali di cui ciascuno ha sofferto. In tal modo, lavorare e insegnare vorrà dire favorire e sprigionare capacità rigenerative reciproche e preziose, lasciare un segno che aiuta a crescere.
